L’e-waste — i rifiuti elettronici, per capirsi — è la categoria di rifiuti che cresce più velocemente a livello mondiale (se nel 2019 sono state prodotti 56.3 milioni di tonnellate di e-waste, le stime per il 2030 sono a circa 81 milioni di tonnellate), con solo un quinto dei rifiuti correttamente riciclati e il resto dritto nell’indifferenziata, e con relativo “spilling” di materiali nocivi (ma difficili e dispendiosi da smaltire correttamente) nell’ambiente.
Ciò non sorprende. Il basso costo e la pervasività dei beni tecnologici fanno sì che, qualora tale bene si rompesse o smettesse di funzionare, sia a volte più conveniente rimpiazzare il bene con uno nuovo piuttosto che farlo riparare: l’accesso a gente specializzata nella riparazione che abbia, a sua volta, accesso alle componenti di ricambio (spesso monopolizzate dai produttori stessi, si veda il caso Apple), e i costi di riparazione (di solito abbastanza alti in rapporto al valore del bene elettronico stesso), sono tutti incentivi a farci rimpiazzare il prodotto malfunzionante o danneggiato, trasformandolo così in e-waste. Non aiuta, inoltre, il fatto che molti dei prodotti elettronici in commercio abbiano un ciclo vitale la cui data di scadenza è già, in un certo senso, fissata: è il noto fenomeno dell’“obsolescenza programmata”, e viene attuato dai produttori dei beni elettronici in maniera abbastanza palese. (Per fare un esempio: un vecchio iPhone 5C di mia madre, comprato nel 2013 e attualmente in mio possesso, diventerà ufficialmente obsoleto nel 2022, poiché la Apple non offrirà più alcun supporto tecnico. Già ora, molte delle app già installate sono inutilizzabili, perché non possono essere aggiornate, e la gran parte delle nuove app disponibili sull’App Store non sono installabili, perché il sistema iOS è troppo vecchio per essere compatibile. Il vecchio iPhone 5C di mia madre è, praticamente, un “glorified dumbphone” pieno di foto delle mie gatte.) L’obsolescenza programmata ha costi non indifferenti sull’ambiente: ad esempio, l’European Environmental Bureau sostiene che se si estendesse a livello europeo il ciclo vitale di smartphone e altri apparecchi elettronici anche di un solo anno, ciò equivarrebbe (in termini di emissioni di CO2) al togliere dalle strade circa due milioni di macchine.
E’ chiaro che, in generale, l’impatto ambientale dell’e-waste non è sostenibile a lungo (ma nemmeno a medio o breve) termine. A livello europeo, le cose stanno cominciando a muoversi, lentamente, verso la giusta direzione: il nuovo piano d’azione europeo per un’economia circolare prevede anche iniziative per contrastare l'obsolescenza programmata (come quella di rafforzare il “diritto alla riparazione”, costringendo legalmente i produttori a rendere facilmente accessibili ai consumatori le parti di ricambio dei prodotti elettronici) e incoraggiare una mentalità favorevole al riutilizzo e al riciclo. Resta, purtroppo, il dubbio che anche queste iniziative siano troppo deboli e troppo in ritardo per affrontare quello che è stato definito “lo tsunami ambientale” dell’e-waste, la cui crescita sembra essere attualmente in regime esponenziale.
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I link di questa settimana:
Quest'estate, dovrebbero uscire nuove direttive EU comprendenti anche un "diritto alla riparazione" rafforzato. (Qui trovate anche più informazioni e grafici.)
Il “Bitcoin mining” consuma più energia, annualmente, di quanta non ne usi l'Argentina.
La Visa sta pensando seriamente di integrare nel suo circuito le crittovalute.
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